L’umanità ha sviluppato un peculiare rapporto con gli animali, strutturato secondo una gerarchia di considerazione morale che sembra inversamente proporzionale al grado di autonomia delle diverse specie. Questa dinamica merita un’analisi approfondita.
Gli animali domestici come cani e gatti, completamente assoggettati e integrati nelle nostre vite, godono del massimo livello di protezione legale e considerazione affettiva. Beneficiano di cure veterinarie, leggi contro il maltrattamento e persino di un riconoscimento come “membri della famiglia”. La loro completa dipendenza dall’uomo sembra aver generato un senso di responsabilità che si traduce in diritti concreti.
Gli animali d’allevamento, parzialmente assoggettati ma mantenuti in uno stato di controllo funzionale ai bisogni umani, ricevono protezioni limitate. La legislazione prevede standard minimi di benessere, ma questi sono spesso subordinati all’efficienza produttiva. Il loro valore strumentale prevale su quello intrinseco, risultando in diritti condizionati dalla loro utilità.
Infine, gli animali selvatici, che hanno resistito all’assoggettamento umano, paradossalmente godono della minore protezione. Visti come entità separate dall’ambito morale umano, la loro esistenza è regolata principalmente da considerazioni di gestione delle risorse o conservazione delle specie, raramente da preoccupazioni per il loro benessere individuale.
Il pensiero creazionista ha profondamente influenzato questa stratificazione dei diritti animali. La narrazione della Genesi, che pone l’uomo come custode e dominatore della creazione (“riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo”), ha fornito per secoli una giustificazione teologica a questa gerarchia morale. Gli animali domestici, essendo quelli che più evidentemente adempiono al ruolo loro assegnato nel disegno divino di supporto all’umanità, ricevono maggiore considerazione. Gli animali selvatici, al contrario, rappresentando un aspetto della natura ancora non pienamente soggiogato dall’uomo, rimangono in una dimensione separata, meno meritevole di protezione secondo questa visione.
Il creazionismo ha alimentato l’idea di un mandato divino al dominio umano sulle altre specie, promuovendo una concezione strumentale degli animali piuttosto che un riconoscimento del loro valore intrinseco. Questa visione antropocentrica ha permeato le strutture culturali e legali occidentali, influenzando il modo in cui concepiamo i diritti e le responsabilità verso le diverse categorie animali.
Tale prospettiva rivela come il nostro sistema etico riguardo agli animali possa essere interpretato come un’estensione del controllo umano, radicato in tradizioni teologiche che separano nettamente l’umanità dal resto della creazione, dove i diritti non sono riconosciuti per una considerazione genuina dell’alterità animale, ma come manifestazione del nostro presunto diritto divino al dominio.