La storia si ripete con crudele precisione. Oggi, mentre cittadini italiani con passaporto tricolore rischiano di essere deportati a Guantanamo dall’amministrazione Trump, risuonano gli echi di un passato che credevamo sepolto. Un tempo eravamo noi i “carcamanos” - termine dispregiativo che storpiava “cara de mono” - i volti scimmieschi che sbarcavano a Ellis Island con le valigie di cartone e i sogni cuciti nelle tasche logore.

Il ritorno al potere di Trump è segnato dall’inizio di una crociata contro i migranti, con la promessa di deportare milioni di immigrati privi di documenti. Una strategia che puzza di diversivo: mentre l’economia americana traballa e le promesse elettorali si sgonfiano come palloncini al sole, ecco che il capro espiatorio perfetto viene servito su un piatto d’argento. I migranti, sempre loro, gli eterni colpevoli delle colpe altrui.

Cent’anni fa eravamo noi quelli descritti come sporchi, disonesti, moralmente corrotti. I nostri nonni venivano additati come portatori di anarchia e mafia, accusati di rubare il lavoro agli “americani veri”. Le stesse parole, la stessa retorica dell’odio che oggi colpisce altri disperati in cerca di futuro. Il provvedimento di Trump prevede la detenzione fino alla deportazione di stranieri che hanno commesso reati minori come il furto o il taccheggio - gli stessi pretesti usati un secolo fa contro i nostri avi.

Mentre si parla di deportazioni a Guantanamo e di oltre duecentomila persone espulse nelle prime settimane, l’ironia amara è che oggi tra i “nemici” ci siamo di nuovo noi italiani. La ruota della storia gira, ma l’umanità sembra sempre ferma al punto di partenza: la paura dell’altro, l’odio come collante politico, la memoria corta di chi ha dimenticato le proprie radici migrate.

Pascoli avrebbe pianto vedendo i suoi emigranti trasformati da vittime a carnefici del pregiudizio.