L’ho conosciuta forte e determinata da sempre, con quella capacità unica che hanno i giornalisti di trasformare le parole in ponti tra le persone.

Eppure dietro quella forza c’era anche la fragilità di chi per venticinque anni ha convissuto con una rara e progressiva forma di sclerosi multipla, di chi ha visto il proprio corpo tradirla pezzo dopo pezzo, lasciandole solo il collo e tre dita della mano destra.

Laura Santi se n’è andata a casa sua, nel suo letto, a 50 anni. Se n’è andata perché così ha voluto lei, auto-somministrandosi il farmaco che l’ha liberata da sofferenze diventate “intollerabili”. È stata una sua precisa scelta, come sempre dovrebbe essere in un Paese degno di essere chiamato civile.

Le sue ultime parole, affidate all’associazione Luca Coscioni, sono il suo testamento più potente: “La vita è degna di essere vissuta, se uno lo vuole, anche fino a cent’anni e nelle condizioni più feroci, ma dobbiamo essere noi che viviamo questa sofferenza estrema a decidere e nessun altro”.

Ecco la lezione che ci lascia Laura: la libertà di autodeterminazione non è un lusso filosofico, è un diritto umano fondamentale. È il coraggio di dire che l’amore per la vita include anche il diritto di decidere quando e come congedarsi da essa, quando il dolore diventa insostenibile.

“Io sto per morire. Non potete capire che senso di libertà dalle sofferenze, dall’inferno quotidiano che ormai sto vivendo”, ci ha detto. E poi: “State tranquilli per me. Io mi porto di là sorrisi, credo che sia così. Mi porto di là un sacco di bellezza che mi avete regalato. E vi prego: ricordatemi”.

Lo stiamo facendo, Laura. Lo faremo sempre. Perché hai trasformato il tuo ultimo atto in una lezione di dignità, dimostrando che la vera libertà non sta solo nel vivere, ma anche nel poter scegliere come concludere la propria storia quando tutto il resto sfugge di mano. Buon viaggio Laura, ora sei davvero libera.