Lo sgombero del centro sociale Leoncavallo rappresenta l’ennesimo capitolo di una strategia che considera ogni forma di aggregazione dal basso come un pericolo da neutralizzare. Con un colpo di ruspa non è stato eliminato solo un edificio occupato, ma smantellata un’intera rete di solidarietà che per decenni ha supplito alle carenze dello Stato sociale. Sussidi all’abitare per chi non può permettersi affitti sempre più cari, corsi di italiano per immigrati abbandonati dalle istituzioni, sportelli sanitari per chi è escluso dal sistema pubblico, una radio che dava voce ai senza voce, spettacoli accessibili a tutti, assistenza legale gratuita, distribuzione alimentare per le famiglie in difficoltà. Tutto spazzato via in nome dell’ordine e della legalità. La narrazione giustizialista di questo governo ha trasformato la solidarietà in crimine e la mutualità in sovversione. Ogni spazio di autoorganizzazione popolare viene dipinto come covo di illegali, ogni iniziativa comunitaria come minaccia all’ordine costituito. La deriva autoritaria non tollera alternative al proprio modello di società individualista e mercificata. Così, mentre si proclama la guerra alla povertà a parole, nei fatti si distruggono gli anticorpi che le comunità si sono date per resistere al degrado sociale. Lo Stato che sgombera è lo stesso che poi si lamenta del disagio nelle periferie, incapace di riconoscere come i centri sociali rappresentino spesso l’ultima barriera contro l’atomizzazione e l’abbandono. La vera minaccia non sono le comunità che si organizzano per sopravvivere, ma un potere che ha paura della solidarietà perché sa quanto possa essere contagiosa.