Viviamo in un paradosso evolutivo che il grande etologo austriaco Konrad Lorenz aveva già intuito nelle sue riflessioni sulla natura umana. Secondo Lorenz, l’uomo ha raggiunto un punto di svolta cruciale nella propria storia evolutiva: per la prima volta in centinaia di migliaia di anni, non ha più nemici naturali esterni contro cui lottare per la sopravvivenza. Circa diecimila anni fa, i nostri antenati hanno definitivamente sconfitto gli ultimi grandi predatori che minacciavano la specie. L’orso delle caverne, il leone marsupiale, i grandi felini dai denti a sciabola: tutti eliminati dalla combinazione letale di intelligenza umana, organizzazione sociale e tecnologia primitiva ma efficace. Le lance, le frecce, e successivamente le prime armi da fuoco, hanno reso l’homo sapiens il predatore definitivo, colui che non teme più alcuna bestia feroce. Ma la natura, come sosteneva lo stesso Lorenz, ha dotato ogni essere vivente di meccanismi di aggressività e competizione che non possono semplicemente svanire nel nulla. Quando il nemico esterno scompare, l’istinto di sopraffazione si rivolge inevitabilmente verso l’interno della propria specie. È iniziata così quella che potremmo chiamare “la scalata intraspecifica”: una lotta senza quartiere non più per la sopravvivenza fisica, ma per il dominio sociale, economico e politico. Il filosofo tedesco Carl Schmitt aveva colto un aspetto simile quando affermava che l’essenza del politico risiede nella distinzione tra amico e nemico. Senza nemici esterni chiaramente identificabili, il potere tende a creare nemici interni, trasformando i propri simili in avversari da sottomettere o eliminare. Questo meccanismo spiega perché, paradossalmente, chi oggi detiene il potere manifesta spesso i tratti più anti-umani. Il leader contemporaneo, privo di draghi da sconfiggere e di territori vergini da conquistare, rivolge la propria aggressività primordiale verso la stessa umanità che dovrebbe proteggere e guidare. Più è lasciato libero di agire secondo i propri istinti primitivi, più diventa distruttivo verso la propria specie. Fino a qualche decennio fa, questa deriva era contenuta da quello che il sociologo Max Weber chiamava “l’etica della responsabilità”: sistemi valoriali condivisi che limitavano l’arbitrio del potere. I partiti politici, con le loro ideologie strutturate, e le religioni, con i loro codici morali universali, fungevano da argini contro l’istinto predatorio intraspecifico. Offrivano narrazioni che trascendevano l’interesse immediato del singolo, creando senso di appartenenza e responsabilità collettiva. Il crollo di questi sistemi di mediazione ha liberato quello che Hannah Arendt definiva “la banalità del male”: non più il male assoluto e riconoscibile, ma l’indifferenza amministrativa verso la sofferenza umana, la riduzione dell’altro a mero strumento, la perdita di ogni vincolo etico nell’esercizio del potere. Il risultato è sotto i nostri occhi: leader che governano come se l’umanità fosse il nemico da sconfiggere, politiche che sacrificano il benessere collettivo agli interessi di pochi, una classe dirigente che ha sostituito la vocazione al servizio con l’istinto alla predazione. Abbiamo vinto contro tutti i nemici esterni, ma stiamo perdendo la battaglia più importante: quella contro noi stessi.
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